storiediorsetti 2025

Sede

Via XXIV Maggio 119

20099 Sesto San Giovanni
Milano

 

Contact
lia.courrier@gmail.com

Storie di   rsetti

senza titolo-1

Il Volto della Fiamma

2025-11-26 17:14

Lia Courrier

Approfondimenti yoga,

Il Volto della Fiamma

Il volto della fiamma

DIVINA PRESENZA

Il fuoco ha illuminato il cammino dell’uomo ancora prima che fosse in grado di accenderne la fiamma. Ogni cultura, in ogni parte del mondo, vede nel fuoco non soltanto un elemento prezioso e utile ma anche un simbolo divino, archetipo di tutto ciò che è sacro, entità dinamica e trasformatrice che da sempre ha presenziato la quotidianità, dalla preparazione dei cibi all’illuminazione delle case, onnipresente nella vita spirituale di qualsiasi liturgia, dottrina o fede. Il fuoco, però, presenta una doppia natura: se da una parte riscalda e illumina, fisicamente e spiritualmente, dall’altra è un vorace predatore che brucia e distrugge tutto ciò che tocca (o quasi, come vedremo) e questo lo rende necessario e temibile, amico e nemico allo stesso tempo, avvolgendosi in un’aura di mistero e rispetto da cui è difficile non lasciarsi affascinare. Nella nostra avventura evolutiva su questo pianeta il fuoco è divenuto il centro attorno a cui la tribù si riunisce per condividere i pasti o per danzare, nel tentativo di attirare la protezione delle divinità e propiziare una buona caccia, un buon raccolto o molte nuove nascite. In seguito, nel tempo, ci ha permesso di cucinare i cibi e renderli più facili da masticare, di illuminare le strade, creare atmosfere accoglienti e rassicuranti nelle dimore. Possiamo davvero dire che senza il fuoco la vita stessa su questo pianeta sarebbe impossibile.

Anche in questa parte di mondo, che vede la culla della sua cultura nella società greca e romana, troviamo un ordine di sacerdozio femminile in cui la Vestali, giovanissime donne scelte all’interno di famiglie patrizie, con i genitori ancora entrambi in vita, divenivano custodi del fuoco sacro (ignis) sito nel Tempio di Vesta, che non doveva mai spegnersi.

Il fuoco ardeva anche nel corpo di queste giovani fanciulle, nella purezza sacra della fiamma, per mantenere il quale era loro richiesto di rimanere vergini per tutto il tempo del servizio nell’ordine. “Io sono colei che è, nessun uomo ha mai sollevato il mio velo”, cantavano le sacerdotesse della grande madre. Quando qualcuna di queste Vestali violava il proprio dovere, veniva inesorabilmente condannata a morte. Poiché non poteva essere uccisa da mani umane, in quanto sacra alla Dea, i romani (che della violenza hanno fatto un divertente passatempo) si erano inventati un modo esageratamente crudele di applicare la condanna: dal momento che non potevano più essere l’incarnazione della purezza, la loro fiamma doveva simbolicamente essere soffocata nella terra fino ad estinguersi. In pratica venivano tumulate ancora vive.

La stessa pena veniva inflitta anche a chi avesse fatto spegnere il fuoco nel tempio. Leggenda narra di una di queste Vestali che, disperata perché il fuoco si era spento, chiese aiuto direttamente a Vesta, e grazie alla sua intercessione riuscì a riaccendere la fiamma gettando un lembo delle sue vesti sulle braci quasi estinte.

Il fuoco è l’effige stessa della dea Vesta, colei che non poteva essere raffigurata, la Dea primigenia, equivalente di Estia, Dea greca del focolare domestico. Questa Dea era corteggiata da Poseidone e Apollo, ma ottenne di poter mantenere per sempre la sua verginità, nonché grandi onori in tutte le case degli uomini e nei templi. Ugualmente anche le vestali godevano di particolari privilegi non concessi alle altre donne, come assistere alle rappresentazioni teatrali o sedere accanto ai Senatori. Potevano anche testimoniare senza giuramento ai processi o salvare dalla pena capitale un condannato, a dimostrazione di come alla purezza fisica corrispondesse anche una purezza del cuore. Roma non sarebbe Roma senza questo ordine di sacerdozio femminile, custode del fuoco in quanto simbolo del moto ascendente, elevazione spirituale, centro luminoso e rinfrancante attorno a cui la famiglia si riunisce.

Le braci di questo fuoco sacro venivano periodicamente portate dalle Vestali di casa in casa per accendere i focolai domestici.
Il fuoco nel tempio di Vesta che fu acceso per la prima volta da Romolo, sebbene sia stato documentato che fosse già acceso da prima, venne spento “ufficialmente” per un ordine dell’Imperatore Teodosio intorno al 390 d.C.

 

Nella nostra tradizione cristiana cattolica la fiamma è anche una delle forme con cui lo Spirito Santo viene rappresentato nell’iconografia cristiana. In origine la Trinità era formata da Padre, Madre e Figlio (quando ancora il divino femminile era presente nella spiritualità, prima che fosse rimpiazzato dall’immagine di un Dio unicamente maschile), in seguito la figura materna venne sostituita da questa entità che non appare in una manifestazione antropomorfa, ma attraverso simboli, come anche la colomba o l’acqua. Gesù stesso afferma: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso» (Lc 12,49).

Delle fiamme compaiono sulle teste degli apostoli durante la Pentecoste, a significare l’ardore che dimora nei loro cuori e anche qui emerge la natura duplice di questo elemento che da una parte infiamma di passione e illumina, accende una fede ardente, mentre dall’altra incenerisce tutto ciò che potrebbe offuscare la sua luce. Il fuoco dello Spirito Santo porta in sé la passione, la purezza e la presenza stessa di Dio.

 

DALL’ALTRA PARTE DEL CIELO

Facendo un salto nel tempo e nello spazio, nella tradizione cinese il Fuoco1 è uno dei cinque elementi insieme a Acqua, Legno, Metallo e Terra. Questi non sono da considerarsi elementi, stabili e separati tra loro ma movimenti, concetto che porta intrinsecamente con sé l’idea della perpetua trasformazione. In questo contesto facciamo riferimento al simbolo del Dao, in cui due polarità complementari si muovono in una danza di mutuo completamento. Non bisogna incorrere nell’errore di considerare Yin e Yang come due forze contrapposte, perché la contrapposizione prevede un reciproco annullamento (o l’una o l’altra), mentre in questo caso stiamo parlando di due aspetti della medesima energia che, in costante mutamento, si manifesta ora con una predominanza Yin e ora con una predominanza Yang ma entrambi gli aspetti sono sempre presenti nello stesso momento.

Osservando questa immagine possiamo notare che la linea che separa i due aspetti non è dritta, ma ondulata, a suggerire proprio un movimento vorticoso che rappresenta il mutamento, la trasformazione. Possiamo considerare questa immagine come la rappresentazione stessa dell’universo e di tutte le sue trasformazioni attraverso le polarità. La cosa che bisogna sempre ricordare è che la divisione rappresenta solo uno stratagemma per aiutarci a comprendere, perché nella realtà questo simbolo non rappresenta due energie ma una soltanto, colta in una istantaneo che ne evidenzia la natura cangiante.

Il Fuoco rappresenta il culmine dello Yang: dinamismo, energia, potenza, passione, azione, espansione, brillantezza, chiarore. Legato all’idea di libertà e di gioia, di un’energia che si diffonde tutto attorno in ogni direzione ma allo stesso tempo mantiene in sé un nucleo saldo e quieto, che richiama ad una calma interiore. Il fuoco, infatti, ha bisogno di essere alimentato da

Nel Libro dei Mutamenti il trigramma relativo al fuoco è Li, formato da una linea debole (yin, spezzata) in mezzo a due linee forti (yang, intere), a rappresentare proprio il movimento della fiamma che si irradia e ascende verso l’alto, con la sua esuberante energia yang, che ha bisogno di aderire ad un nucleo, fonte di materia, suo contraltare oscuro, per essere in grado di brillare e generare luce. Il trentesimo esagramma denominato “L’Aderente” (a richiamare l’idea del Fuoco che deve “aderire” al suo nutrimento per potersi manifestare) è doppio, formato da due trigrammi Li uno sopra all’altro e rappresenta un culmine, l’essere giunti al centro luminoso di qualcosa, mentre tutto attorno ogni cosa viene divorata dal fuoco.

Chi riceve questo responso saprà che, in qualsiasi ambito risieda la domanda posta all’oracolo, il suo compito è quello di portare luce e speranza, proprio a significare che le mutazioni portate da Fuoco non riguardano solo le questioni termodinamiche, ma anche la sfera affettiva, di chi è capace di irradiare il proprio puro chiarore.

Nel sistema dei 5 elementi, decisamente più recente rispetto all’Oracolo, Fuoco è associato alla fase della giovinezza, quella in cui si raggiunge l’espressione massima del proprio potenziale, della forza stessa della vita che ci anima. La stagione associata a Fuoco è l’estate, poiché l’elemento fuoco è rappresentato dal sole, con la sua capacità di nutrire, riscaldare, trasformare e dare la vita. Tutto questo processo benedetto avviene però attraverso una distruzione, cui segue poi la possibilità di rinascere per mezzo di una trasformazione, perché ciò che il fuoco brucia non può più tornare allo stato precedente ma può solo continuare a mutare.

Nel movimento Fuoco si individuano le forze che dominano l’organo Cuore che, come abbiamo già detto negli scorsi approfondimenti, in questo approccio all’essere è considerato l’Imperatore5. Il Cuore, è detto, “governa i vasi”, ossia il suo ruolo si estende attraverso le propaggini che conquistano ogni angolo del corpo: il sistema cardiocircolatorio.

Il ruolo del cuore è certamente anche quello di spingere il sangue nei vasi, e con esso promuovere la circolazione dell’energia, ma principalmente il suo compito è quello di accogliere lo Shen. Questa parola è difficilmente traducibile nella nostra lingua, perché custodisce un concetto troppo distante dal nostro modo di vedere il mondo e dalla nostra cultura. Secondo la visione cinese ogni individuo è dimora di moltissimi Shen, il cui numero non è facilmente quantificabile. La cosa importante da sapere è che essi sono, potremmo dire, spiriti che lo animano su ogni livello (intellettivo e affettivo) dalla nascita fino alla morte. Tradizione vuole che lo Shen abiti nel Cuore, questo Imperatore che diviene così anche tramite tra il terreno e il divino e con il suo pulsare permette agli spiriti di muoversi liberamente nel nostro paesaggio interiore. Gli Shen rappresentano quella intelligenza spirituale in grado di guidarci verso il compimento di quello che potremmo chiamare il “progetto originario”, ma questo può avvenire solo se non ostacoliamo il fluire di queste energie.

Quando il Cuore è vuoto e in uno stato di equilibrio, quando non esiste alcun conflitto in nessun piano dell’essere, allora lo Shen può abitare questo luogo sacro, e da lì emanare la sua radianza. Diversamente, un Cuore turbato o indebolito non può offrire una degna dimora allo spirito, che in un simile contesto appare spento, la sua luce affievolita.

Il colore associato al movimento Fuoco è il rosso cinabro, una tonalità di rosso intenso, molto acceso, di derivazione minerale. Anticamente si utilizzava direttamente il cinabro per produrre questa tinta, ma poiché questo minerale contiene anche mercurio, la lavorazione si è rivelata molto pericolosa e quindi si è passato all’utilizzo di altri composti, come il “sangue di drago”, che produce un colore simile al cinabro, ma che a differenza di questo non ha origine minerale ma da una resina vegetale. Questa tonalità di rosso induce uno stato di allerta, richiama ad una emotività intensa, che può manifestarsi anche come rossore alle guance. Una persona che presenta squilibri al movimento Fuoco può avere la pelle sempre arrossata, così come la punta della lingua, che è proprio l’orifizio controllato dal movimento Fuoco.

 

LA VISIONE INDIANA

La divinità più importante tra gli Dei terrestri è Agni, il fuoco.
Nella tradizione Vedica è secondo solo a Indra, e occupa un posto di primaria importanza in ogni aspetto del creato: Agni è il Sole, che con la sua luce nutre le creature e permette la vita sulla Terra. Agni è il fuoco terrestre, ovviamente, ma anche il fulmine e molte altre forme non manifeste, come ad esempio quello che viene chiamato Tapas, ossia l’ardore prodotto dallo yogin o dalla yogini a seguito di una pratica ardente.
Tutto ciò che Agni tocca viene trasmutato in qualcosa di puro e immortale. Agni è colui che trasforma i doni degli umani in offerte per le divinità, un mediatore insomma, detto “la bocca degli Dei”, che ingerisce le oblazioni facendole diventare un dono adatto alle sfere celesti. I riti sacrificali sono incredibilmente importanti nella cultura vedica, tutto deve svolgersi secondo una sequenza di gesti ben precisa, gli inni cantati rispettando pedissequamente la metrica, in un luogo la cui scelta deve essere a lungo ponderata per propiziare il successo del sacrificio, altrimenti gli Dei sarebbero contrariati e questo porterebbe solo sventura. I Brahmini, la casta più alta nel sistema sociale tradizionale indiano, erano gli addetti allo svolgimento del rito, persone preparate e precise nel proprio compito, per consentire al sacrificio di compiersi con l’esito sperato. Le richieste fatte dagli umani agli dei, attraverso Agni, hanno a che fare con il raccolto, con le piogge, con la perpetrazione della specie, con la sopravvivenza, insomma.
Agni ha una essenza triplice: terrena, celeste e cosmica, per questo può assolvere il delicato compito di fare da intermediario tra gli umani e gli Dei, in quanto partecipe e attore in ogni dimensione.
La lingua vedica non è stata creata, come tutte le altre lingue, ma composta con suoni che sono stati “ricevuti” da uomini saggi e spiritualmente elevati da poterle accogliere e comprendere. La sillaba primordiale è AUM, il mantra che accompagna molte pratiche di yoga, spesso pronunciato OM ma in realtà è composto da tre lettere più un suono silenzioso che riverbera alla fine, quando l’emissione della voce giunge al termine. La triade che compone il mantra OM ha molteplici significati (la Trimurti, i tre mondi, il ciclo composto da nascita-conservazione- riassorbimento, giusto per fare un esempio) e potremmo considerare questo mantra sacro come lo strumento del Creatore, dal momento che proprio dalle sue vibrazioni tutto il Cosmo ha origine, a partire da uno spazio in cui ogni cosa è presente ma ancora non manifesta: le vibrazioni permettono al potenziale di materializzarsi. Questo è uno dei motivi per cui nella cultura indiana il suono e il ritmo occupano un posto di primaria importanza, dalle parole dette al canto e la pratica dei mantra è uno dei metodi con cui è possibile accendere il proprio fuoco interiore. Il proprio Agni.

Agni è chiamato anche “figlio delle Madri”, a indicare i due bastoncini che, se sfregati, danno vita alla fiamma che immediatamente, appena nata, comincia a divorare proprio quelle madri che le hanno permesso di manifestarsi. L’iconografia di questa divinità varia a seconda della regione, comunemente viene rappresentato come un uomo dalla carnagione rossastra o grigio fumo, con diverse teste e braccia. I capelli sono irti a rappresentare le lingue di fuoco. Nelle mani stringe gli strumenti per aizzare le fiamme come ad esempio un ventaglio, più altri attributi che possono variare a seconda della regione: una mala (anche detto “rosario indiano”), il cucchiaio per i riti sacrificali, un fiore di loto. La sua cavalcatura (Vahana) è un ariete o un montone.

Quando si affronta per la prima volta la lettura degli “Yoga Sutra” di Patanjali, si può rimanere sorpresi nello scoprire che non c’è traccia delle posture nei 196 aforismi che compongono quest’opera immortale, se non qualche accenno in un paio, che però fanno riferimento esclusivamente alla postura per la meditazione, e non al florilegio caleidoscopio di forme che oggi qui in Occidente chiamiamo pratica yogica. L’albero dello Yoga, secondo Patanjali, ha otto rami. Sebbene ognuno di questi sia ugualmente importante, per questioni puramente didattiche e letterarie ha scelto un ordine di presentazione che prevede un cammino dall’esterno all’interno, dal materiale all’immateriale, dal mortale all’immortale. Il primo ramo con cui entriamo in contatto, nel testo di Patanjali, è quello delle osservanze, dei precetti, raggruppati in due famiglie chiamate Yama e Niyama. Si tratta di un vademecum per una vita Yogica in armoniosa relazione con sé stessi, con gli altri e con la natura.

Senza addentrarci oltre in questo ambito, che richiederebbe una esposizione a sé, è importante in questa sede dire che uno dei Niyama è proprio Tapas (a volte scritto anche Tapah), spesso tradotto come “austerità”. Con questa parola s’intende la disciplina intensa e ardente del praticante, che produce come effetto quello di alimentare la fiamma di quel fuoco interiore capace di bruciare tutte le impurità, in ogni livello dell’essere, giorno dopo giorno, respiro dopo respiro. Questo processo avviene con l’utilizzo di ogni strumento che la pratica dello Yoga ci consegna: dalle posture al pranayama, fino ad arrivare al samyama, ossia a quel percorso che ci porta in uno stato di profonda meditazione. A seguito di una dedizione ardente e motivata alla pratica possiamo raggiungere una maggior forza fisica e mentale, costruire nuovi Samskara a sostituzione di quelli appartenenti ai nostri vecchi schemi di pensiero, sviluppare la capacità di discernimento e promuovere una visione sul mondo non condizionata dalla mente sensoriale, perché i sensi sono imperfetti e non consentono di vedere la vera natura delle cose.

Questo vuol dire abbracciare una Sadhana, ossia una quotidiana pratica spirituale, con costanza e per un tempo abbastanza lungo da poter liberare dal passato e dai pensieri non processati. Il fuoco così acceso brucia tutto il non necessario senza neanche il bisogno di comprendere a livello cognitivo, quella che la fiamma interiore attua è una purificazione che non avviene nel campo della mente razionale, che però viene illuminata dal suo chiarore.

Attenzione però: non bisogna praticare con l’obiettivo di ottenere dei risultati, con l’idea di avere una ricompensa per l’impegno volto alla pratica. La Sadhana va abbracciata come se ogni minuto fosse l’ultimo, restando nella Bellezza, nella sua contemplazione, quindi si pratica lo Yoga per la gioia di praticarlo, perché quando pratichiamo siamo raggiunti dalla grazia. Certo, ci deve essere sufficiente interesse affinché questo accada ma possiamo considerare ogni attività una Sadhana, se svolta con questo tipo di approccio, sia essa andare in bicicletta, cantare, dipingere, danzare. Il concetto di Sadhana è relativo alla presenza mentale, alla cura e all’attenzione che portiamo in ciò che facciamo e non esclusivamente al tipo di attività svolta.

La Sadhana è un percorso che non conduce in qualche luogo particolare, perché in realtà non abbiamo bisogno di andare da nessuna parte, dal momento che la Bellezza è già insita in ogni cosa, anche in noi. Si tratta di un viaggio volto a svelare, uno squassare e distruggere corazze, concrezioni, strati che offuscano la luce, affinché la fiamma viva possa illuminare la nostra caverna dall’interno, fino al punto in cui ci sarà più chiarore dentro che fuori.

La Sadhana permette di semplificare, di tornare al meno, eliminando il più.
Non si tratta di un processo indolore, quando la fiamma aderisce a ciò che è impuro per bruciarlo conosceremo il dolore nel corpo e nella mente, ma si tratta di un processo necessario e praticamente inevitabile. Qualcuno di noi affronterà grande dolore, qualcun altro un dolore lieve, ma nessuno potrà evitare di entrare a contatto con esso. Quando siamo faccia a faccia con il dolore la vocazione alla pratica potrebbe vacillare, l’unico modo per riaccenderla è continuare a praticare con maggior ardore fino a dissolvere del tutto quel nucleo di dolore.
Tapasvin è una parola che ha molteplici significati, può essere tradotta come “misero”, “povero”, “rovinato”, ma anche come “colui che pratica austerità”. L’india è la Madre di questi uomini santi, asceti, che eseguono pratiche spesso incomprensibili agli occhi di noi occidentali, come quella dell’Urdhva Bahu, ossia legarsi un braccio al di sopra della testa per anni, fino a perderne completamente l’uso. Sono persone che spesso non possiedono null’altro di ciò che portano addosso e vivono di elemosine, dormendo all’addiaccio o nei templi, perché il percorso che hanno scelto, la Sadhana che hanno abbracciato, gli chiede di agire così.
Al di là delle motivazioni che possono spingere questi esseri umani a sottoporsi ad un simile cammino, è importante osservare queste realtà nell’ottica di comprendere cosa sia il Tapas, la dedizione ardente, la disciplina interiore. Anche noi quando abbracciamo lo Yoga sentiamo quella spinta che ci porta a dedicarci con passione sempre crescente alla pratica. In Occidente l’accesso alla filosofia dello Yoga avviene quasi sempre attraverso la pratica posturale ma accade sovente che ad un certo punto il praticante intuisca che lo Yoga Asana è solo una piccola parte dell’universo che si è appena cominciato a sfiorare, sentendo il bisogno di approfondire anche gli altri “rami” di questo albero delle delizie. Nessuno, a queste latitudini, è disposto a sottoporsi alle pratiche estreme dei Sadhu, ovviamente, che appartengono alla cultura indiana (specialmente quella del sub-continente) e che non avrebbe senso per noi abbracciare, ma forse l’energia che permette al bisogno di praticare di sorgere e stabilizzarsi nel nostro quotidiano, è una forza che anima tutti coloro che sentono di aver trovato il proprio percorso.

 

Nel canto VI della Bhagavat Gita, Krishna dice ad Arjuna:

16. Nessuno può diventare uno Yogi, o Arjuna, se mangia troppo o troppo poco, se dorme troppo o no dorme abbastanza.
17. Chi è moderato nel mangiare e nel dormire, nel lavoro e nello svago, può mitigare le sofferenze materiali con la pratica dello yoga.

18. Si dice che lo Yogi è ormai stabile nello Yoga quando grazie a questa disciplina riesce a regolare le attività della mente, e libero dai desideri materiali si colloca nella trascendenza.

 

Il fuoco interiore viene chiamato anche “fuoco gastrico”, la sua dimora è localizzata nella zona dell’addome, a livello dell’ombelico, dove si trova il terzo chakra Manipura, “la città dei gioielli”. Nello yoga è molto importante fare attenzione alla qualità del nutrimento che immettiamo nel nostro corpo, e qui non si parla solo del cibo alimentare, ma anche di ciò che scegliamo di ascoltare, guardare, toccare. Ancora più importante, però, è la digestione di questo cibo, il processo che elabora le sostanze e divide quelle pure e indispensabili da quelle impure che quindi devono essere eliminate. Ecco in che modo Agni sostiene la nostra esistenza, e non solo quella metabolica: sublimando quel nutrimento, purificandolo e rendendolo adatto alla nostra vita, biologica e non, è promotore della salute e dispensatore di energia.

Nella Haraka Samhita, Chikitsashtana, XV, 3-4 si dice:

“Longevità, colorito, forza, capacità d’iniziativa, sviluppo, lustro, vigore, energia, calore e respiro vitale sono basati sul fuoco (agni) del corpo. Se il fuoco è spento, la persona muore;
se il fuoco è equilibrato, la persona vive a lungo priva di malattie;

se il fuoco è disturbato, la persona si ammala. Il fuoco è quindi la radice (d’ogni cosa).”

 

IL MITO

In India non esiste una sola verità, ma molteplici.
Esistono tante verità quante sono le persone che stanno osservando un dato oggetto.
Non appena ci si addentra nella lettura dei racconti e delle epiche contenute nei testi, ci si rende subito conto che questi assumono caratteristiche diverse a seconda della regione, e questo può davvero far perdere la testa a chi è in cerca di certezze. Le storie mutano a seconda del narratore, i personaggi hanno aspetti diversi, agiscono in modo differente, cambiano nome, ma ciò che non cambia è il nucleo vibrante, la stilla di Assoluto contenuta, l’insegnamento custodito, al di là di questi dettagli di relativa importanza.
Le storie che sto per scrivere sono solo alcune delle possibili versioni che potreste incontrare, o che forse avete già incontrato. Il primo episodio, contenuto nell’epica “Ramayana”, spiega il potere purificante del fuoco in modo inequivocabile e toccante.

 

Sita
Quella di Sita è una storia di devozione e dedizione.
Ram, il protagonista di questa storia che parla dell’Amore in ogni sua possibile sfaccettatura, è uno Kshatryia, ossia appartenente alla casta dei guerrieri e imperatori, condannato ad un lungo esilio nella foresta dalla sua stessa famiglia a seguito di una storia di potere e discendenza. Deve quindi partire, senza null’altro che i vestiti che porta indosso, come un eremita. Sita, sua sposa, decide coraggiosamente di seguirlo, perché il suo compito di compagna fedele è quello di stare al suo fianco, così insieme Ram e il di lui fratello Lakshmana, partono alla volta di questo esilio della durata di 14 anni. Dopo un primo periodo trascorso insieme ad altri saggi, si spingono ancor più dentro alla foresta, dove Sita un giorno viene rapita da un terribile Asura7, Ravana, che con un inganno allontana Ram e il fratello dal luogo in cui erano accampati, approfittando poi della loro assenza per rapire la povera Sita portandola in volo fino all’Isola di Lanka, sede del suo palazzo. Dietro di sé, come unico testimone, il vecchio Re degli avvoltoi (che aveva tentato di salvarla) giace a terra gravemente ferito dall’Asura.
Disperata, Sita resta in attesa che il marito venga a prenderla e qui si dipana tutta l’epopea di questo incredibile salvataggio, che vedrà Ram affrontare l’impresa con il sostegno di un esercito speciale formato da scimmie divine e orsi.
Una volta liberata Sita, ritornati a casa, accolti da grandi festeggiamenti, dopo qualche tempo il popolo comincia ad insinuare che Sita, nel lungo tempo trascorso nella dimora del terribile Ravana, potesse aver perso la sua purezza. Lei sa di non aver fatto nulla per offendere la reputazione del marito, dal momento che aveva scelto di restare nel giardino fuori dal palazzo, dormendo sotto le stelle, protetta solo dagli alberi pur di non mettere neanche piede nella dimora del corrotto Ravana. Anche Ram sa in cuor suo che lei è senza macchia, ma il popolo mormora e lui, nel ruolo di sovrano, non può esimersi dall’essere turbato da quelle voci.
Sita allora decide di fare la prova del fuoco, chiamata Agnipariksha.
Con la caparbietà e la fierezza tipica delle donne indiane, si getta senza paura nel fuoco, poiché sa che Agni brucia e si attacca solo a ciò che è impuro e difatti è lo stesso Agni a prenderla tra le sue braccia per portarla trionfalmente fuori dalle fiamme, come prova della sua totale estraneità a ciò che i pettegolezzi avevano insinuato per giorni.
Non bisogna però cadere nell’errore di pensare a Sita come ad una donna sottomessa.
Al momento del rapimento ha la prontezza di far cadere tutti i suoi gioielli per lasciare una traccia che possa aiutare Ram a ritrovarla e quando Hanuman (la divinità scimmia, altro personaggio chiave di questa storia) giunge da lei proponendole di fuggire di nascosto, volando sulla sua schiena, ella rifiuta, perché Ram ha ricevuto un torto da Ravana ed è giusto che gli sia data la possibilità di battersi con lui. Ecco perché decide di restare tutto il tempo in trepidante attesa di vedere il suo amato giungere da lei, saldamente ancorata alla sua fiamma d’amore, così ardente e brillante che nemmeno Ravana riesce ad offuscarla, con i suoi tentativi di farla cedere alla lussuria e alle sue offerte di doni preziosi.

 

Sita è artefice del suo destino, tenace e ardente fino al compimento del suo Dharma quando Ram, rendendosi conto che neanche l’Agniparishka aveva sedato il chiacchiericcio, chiede a Lakshman di portarla sulle rive del Gange, presso un Ashram e di lasciarla lì. Lei si ritirerà con grande dignità, per amore del marito, conducendo un vita semplice, immersa nella natura e dedita alla spiritualità.

 

Siva
Sati è profondamente devota a Siva, lo ama in segreto perché al padre non piace troppo questa scapigliata divinità che in quel momento vive una fase di grandi austerità a causa di un debito karmico, quindi se ne va in giro con soltanto un drappo a coprire l’indispensabile, il corpo ricoperto di cenere dei campi crematori e i capelli arruffati, raccolti in un disordinato accrocchio sopra alla testa. Sati lo ama così tanto che, in sede di un torneo tra guerrieri organizzato per scegliere il suo sposo, lancia la ghirlanda destinata al prescelto in aria, invocando il nome di Siva, che si manifesta proprio dentro al cerchio di fiori. A quel punto il padre non può che accettare il desiderio della figlia: i due si sposano e la loro è una relazione intensa ed erotica.
Un giorno il padre di Sati, Re Daksha, organizza un grande rito sacrificale, una Yagna, e a questo evento invita tutti, tranne Siva. Forse Daksha teme che con tutte quelle sostanze impure sul corpo possa inficiare il risultato del sacrificio, ma il motivo principale di questa omissione è perché il suo genero non gli va proprio a genio. Per Siva non si tratta di un grosso problema, lui si posiziona al di sopra delle faccende mondane, si limita ad andare sul monte Kailash a meditare. Sati invece è infuriata, la calma di suo marito fa accendere ancora di più la sua rabbia e il suo sdegno, si sente insultata dal padre e non è più disposta ad accettare un simile affronto. Decide, quindi, di andare comunque alla Yagna e una volta lì porta a compimento qualcosa di terribile.
Ci sono due versioni di questa storia: in una Sati si getta nel fuoco, perché capisce che in questa vita non avrebbe mai potuto stare con il suo amato come avrebbe voluto, con l’approvazione del padre. Gettandosi nel fuoco sacro, inoltre, riesce a sabotare e interrompere la Yagna a cui suo Daksha tanto teneva. In un’altra versione Sati comincia a sviluppare volontariamente un potentissimo Tapas provocando un’autocombustione che la incenerisce in pochi minuti dall’interno.
Dall’alto della montagna Siva percepisce un’interferenza nel campo del mondo, dovuta alla morte della sua amata, in preda alla rabbia si precipita nel luogo del rito, dove regna lo sgomento per l’orribile morte della giovane, manifestandosi nella sua natura terrifica di Virabhadra, ma questa è un’altra storia.
Quando tutto torna alla quiete Siva, profondamente addolorato, torna a sedere sull’inaccessibile vetta del monte Kailash scivolando in una meditazione talmente profonda che tutto il creato si sospende in una apparente immobilità. Dopo un tempo indefinito i Deva cominciano a preoccuparsi e così inviano Kama, la divinità dell’amore carnale che, armato di arco e di cinque frecce di fiori che illanguidiscono il cuore, si avvicina svolazzando alla figura immobile di Siva. Non appena si appresta ad incoccare la freccia nel suo arco, il terzo occhio di Siva, quello non duale, divino, si apre ed emette un raggio laser che incenerisce all’istante il povero Kama. I Deva allora tentano nuovamente di destare Siva da quella meditazione che stava portando il creato verso immobilità e inerzia inviando la figlia della montagna, Parvati, che altri non è che la reincarnazione di Sati (a sua volta incarnazione di Shakti, il divino femminile archetipico). Parvati è di una bellezza ultraterrena, i suoi seni e i suoi fianchi disegnano curve deliziosamente perfette, gli occhi sembrano due fiori di loto, i suoi piedi sono gioielli, le labbra come due frutti maturi, la carnagione dorata, brillante e liscia come seta.

Siva neanche la degna di uno sguardo e continua a meditare, indifferente.
Parvati allora siede in ardente meditazione accanto a lui, producendo un Tapas talmente potente da attirare l’attenzione di Siva, che finalmente si accorge di lei e la riconosce.
La loro unione farà di Siva l’unica delle tre divinità della Trimurti ad avere una famiglia e ben due figli: Ganesha e Kartikkeya (o Skanda).

 

Agni
L’ultimo racconto riguarda proprio Lui: Agni.
Un giorno Arjuna e Krishna passeggiano in direzione della foresta di Khandava, lungo le rive del fiume Yamuna, quando ad un certo punto vedono venirgli incontro una figura che ha tutta l’aria di essere un Brahmana dall’aspetto luminoso e splendente. Il suo aspetto è talmente maestoso e imponente che i due si inchinano istintivamente in segno di rispetto.
Krishna chiede cosa possono fare per servirlo, al che il Brahmano risponde che da tempo soffre di una malattia al tratto digerente, per la quale i medici gli hanno prescritto una dieta particolare. Purtroppo però nessuno è in grado di fornirgli quell’alimento, per questo chiede a loro, valorosi guerrieri, di aiutarlo.
Salta fuori che questo individuo è proprio Agni, ammalato a seguito di cinque riti sacrificali durati nel complesso per ben 12 anni, in cui il povero Agni è costretto ad ingurgitare tanto di quel Ghee8 da restarne intossicato. Da allora Agni non riesce più a bruciare e di conseguenza nessun sacrificio può avere luogo, il che allarma talmente la società da sollevare l’attenzione di Brahma stesso, che dice ad Agni: “devi ricominciare a bruciare, se non ardi la società soffrirà per mancanza di virtù e necessità materiali. Se sei ammalato vedi di curarti divorando con le tue fiamme la foresta di Khandava”.

 

 

Ecco come Agni arriva ad incrociare il cammino di Krishna e Arjuna.
Agni racconta di aver già tentato più volte a causare incendi, ma poiché in quella foresta abita il serpente Takshaka con tutta la sua famiglia, grande amico di Indra in persona, ogni volta che le fiamme si alzano ecco che Indra scatena nubifragi per spegnerle. Adesso si trova in un momento critico, di grande debolezza, ha proprio bisogno che i due eroi tengano lontano Indra il tempo necessario da permettergli di divorare la foresta.
Senza indugio i due accettano di aiutarlo, ma chiedono armi adeguate, poiché per intraprendere una battaglia contro i Deva le armi umane non sono adeguate. Detto fatto: Arjuna riceverà Gandiva, l’arco celeste, corredato di una faretra inesauribile che non finisce mai la scorta di frecce, mentre Krishna riceverà il disco Sudarshana.
Non appena Agni comincia ad accendere le fiamme per assumere la sua medicina ecco che Indra annuncia il suo arrivo tramite dense nubi nere cariche di pioggia, così i due eroi cominciano a mandare in cielo armi infuocate che le fanno evaporare. Segue una terribile e sanguinosa battaglia che si conclude con la vittoria dei due eroi.
Bisogna ricordare che Arjuna, così come tutti i Pandava, è stato concepito attraverso l’utilizzo di un mantra, donato alla madre Kunti, che permette di evocare una divinità per generare un figlio. Il consorte di Kunti, Pandu, aveva ricevuto una maledizione per cui non poteva toccare il corpo della donna desiderata senza cadere morto all’istante, così Kunti dovette risolversi a usare questo dono che aveva ricevuto da ragazza, per poi insegnarlo anche all’altra moglie di Pandu, Madri, in modo che potesse soddisfare il suo desiderio di maternità.
Il padre di Arjuna è proprio Indra, Deva dei fulmini e delle tempeste, un’energia esplosiva che forse aveva trasmesso anche al figlio, data la sua precisione con le armi. Indra è così ammirato nel vedere il valore di Arjuna in battaglia da decidere di ritirarsi, dal momento che Takshasa, il serpente suo amico, era altrove in quel momento e non correva alcun pericolo.
Il rogo nella foresta di Khandava durerà per giorni e giorni, mettendo in ginocchio la popolazione di animali che nella foresta aveva la propria casa e che dovrà fuggire disperata per non essere ridotta in cenere, ma dopo quella cura Agni riacquisterà finalmente la salute e i riti potranno riprendere.

 

In copertina:
Yoshitoshi Tsukioka, Pompiere
Correzione bozze e revisione: Daniela Baldo
Ringrazio tutti i maestri che mi hanno trasmesso queste conoscenze, sia quelli che ho conosciuto di persona che coloro da cui sono stata raggiunta attraverso la loro opera di scrittura. Così come ricevo, allo stesso modo riconsegno attraverso la trasmissione, affinché il ciclo possa continuare.